Il collasso del Libano, il crollo dell’Afghanistan

Ci sono due Paesi mediorientali che – in situazioni e per motivi molto diversi – di questi tempi stanno vivendo crisi e difficoltà molto pesanti e importanti: l’Afghanistan, che in questi giorni è sotto i riflettori di tutto il mondo, e anche il Libano, di cui si parla molto meno, ma merita comunque attenzione. Anche perché si affaccia direttamente sul Mediterraneo.

In Afghanistan, dopo la presa di Kabul e la conquista del potere, i Talebani cercano di rassicurare il mondo sulle intenzioni del futuro governo. Ma non tutti sono pronti a credergli. Come riporta anche la nuova newsletter dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), nella prima conferenza stampa a Kabul il portavoce dei Talebani pronuncia parole rassicuranti, annunciando la volontà di “rispettare i diritti delle donne, all’interno della legge islamica”, la Sharia, e mostra il volto ‘nuovo’ dell’Emirato islamico dell'Afghanistan: “vogliamo assicurarci che l’Afghanistan non sia più un campo di battaglia”, e ancora: “abbiamo perdonato tutti coloro che hanno combattuto contro di noi. La guerra è finita. Non vogliamo nemici esterni o interni”. 

I Talebani hanno anche promesso un’amnistia generale per i funzionari statali, per tutti quelli che “hanno collaborato con gli americani” e persino per “i soldati che hanno combattuto contro di noi”. Usano toni moderati e spiegano che il movimento è determinato a fare in modo che nessuno usi mai più il Paese “per esportare oppio” o per “organizzare attacchi terroristici”. Ma per farlo, aggiungono, avrà bisogno “del sostegno internazionale, per promuovere un’alternativa alla coltivazione del papavero”: un modo per accreditarsi presso la comunità internazionale ancora stordita dalla disfatta afghana. In soli 10 giorni i miliziani islamisti hanno sbaragliato la debole resistenza dell’esercito regolare, conquistato distretti e provincie, e sono entrati nella capitale senza spargimento di sangue. Ma il pragmatismo e la pacatezza ostentati in favore di telecamere non convincono tutti. 

 

“La novità non sta nel fatto che i Talebani sono cambiati, ma che hanno interesse a non ricoprire, come accaduto in passato, il ruolo di ‘pariah’ internazionali e vogliono essere riconosciuti come interlocutori politici”, sottolinea Giuliano Battiston, analista dell’Ispi. Che spiega: “dopo l’invasione Usa e la sconfitta dell’Emirato, in seguito agli attacchi dell’11 settembre 2001, i Talebani si sono riorganizzati e con il sostegno di attori regionali primo fra tutti il Pakistan, hanno ripreso la strategia di guerriglia contro le istituzioni sostenute dalla coalizione internazionale. Sono seguiti 20 anni di guerra armata e di posizione. Per i Talebani la scommessa era chiara: alla fine gli Stati Uniti se ne sarebbero andati. Avevano ragione. Più di 250mila morti, 2.400 vittime americane e 2mila miliardi di dollari dopo, gli Usa e la Nato hanno lasciato il paese in cambio di promesse e generiche garanzie contenute negli accordi di Doha del febbraio 2020”. 

Rinunciare ad “alcune delle loro manifestazioni più violente” per ottenere un riconoscimento internazionale “quanto più ampio possibile”. Questo potrebbero fare i Talebani secondo Claudio Bertolotti, ricercatore associato Ispi e direttore di Start InSight, anche se dovremo “sostanzialmente scordarci la maggior parte dei diritti acquisiti” dal 2001 ad oggi. Rispetto alla leadership talebana che dominò tra il 1996 e il 2001, “cambierà molto da un punto di vista politico” perché, spiega Bertolotti, i Talebani “si interfacceranno e faranno il possibile per creare relazioni diplomatiche consolidate che portino a un riconoscimento quanto più ampio possibile a livello internazionale”. 

L’unica cosa che oggi appare chiara è che il destino dell'Afghanistan è nelle mani dei capi Talebani: il leader supremo del movimento, Haibatullah Akhundzada, il suo leader politico, Abdul Ghani Baradar e molti altri comandanti che hanno condotto le operazioni sul campo. Se l’inserimento dei combattenti nelle forze armate non è più considerato troppo problematico dal momento che l’esercito afghano si è disintegrato, altri sono i nodi da affrontare. Con i beni del governo congelati, una valuta locale in caduta libera e il capo della banca centrale scomparso, è difficile immaginare di restare al potere se non potranno pagare gli stipendi. Ora si tratta di passare dalle montagne ai ministeri, occupando le sedi amministrative locali e nazionali, e di prendere in mano le redini di una nazione di 39 milioni di persone. 

 

Nello stesso scenario mediorientale, anche se in una situazione politica e sociale molto diversa, c’è poi da ricordare anche il collasso del Libano. Il 4 agosto di un anno fa la tragedia dell’esplosione al porto di Beirut: l’enorme scoppio sventrò interi quartieri della città e fu tale da causare un terremoto di magnitudo 3.5. I morti furono più di 200, 7mila i feriti, 300 mila gli sfollati. I danni, secondo le stime della Banca Mondiale, pari a 4,2 miliardi di dollari. La negligenza e non un atto terroristico ha infatti portato allo scoppio delle 2.750 tonnellate di nitrato di ammonio rimaste stoccate per sei anni, senza misure di sicurezza, negli hangar del porto. Dalle dimissioni dell’allora primo ministro, Hassan Diab, una settimana dopo l’esplosione, il governo rimane ancora provvisorio. 

La Banca mondiale stima che quella libanese sia nella top 3 delle peggiori crisi economiche degli ultimi 150 anni. Il sistema bancario è fallito e il Paese, un tempo noto come ‘la Svizzera del Medioriente’, con un debito pubblico vicino al 180% del Pil, rischia un secondo default finanziario dopo quello del marzo dello scorso anno. Negli ultimi due anni la lira libanese ha perso il 92% del suo valore rispetto al dollaro americano, mentre il reddito pro-capite è sceso del 40%, e il tasso di disoccupazione è salito al 40%. 

Chi poteva permetterselo ha lasciato il Paese, mentre quelli che rimangono affrontano la fame e la difficoltà di accesso ai beni di prima necessità. Secondo l’Osservatorio sui prezzi dell’Università Americana di Beirut il costo degli alimenti è aumentato del 700% negli ultimi due anni, mentre gli stipendi sono bloccati ai valori di prima della crisi. Di conseguenza, più della metà della popolazione vive sotto la soglia di povertà e non ha neanche accesso sicuro all’acqua potabile. Nonostante questi dati, un intervento del Fmi (Fondo monetario internazionale) è al momento in stand-by dal luglio dello scorso anno per il rifiuto del governo e della Banca Centrale libanese di attuare le riforme richieste dai donatori ufficiali, Francia, Regno Unito e Usa. Il sistema interno appare quindi bloccato da manovre di potere, interessi personali e corruzione, e il Libano rappresenta quindi un’altra area di crisi e di forte incognita all’interno dello scenario mediorientale e in un Paese che si affaccia direttamente sul Mediterraneo.

 

 

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