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Rappresentazione visiva dell'articolo: Terre rare: la Cina è in testa, ma c’è chi punta a superarla

Terre rare: la Cina è in testa, ma c’è chi punta a superarla

Adriano Loponte

07 settembre 2022

Ho trovato un articolo interessante che parla delle cosiddette ‘terre rare’, sul quindicinale (storico) Il Bollettino, ecco i punti più rilevanti di questa analisi dell’argomento e del settore.

Con il 70% delle riserve di terre rare – che sono composte complessivamente da 17 elementi: tra cui scandio, ittrio e i lantanoidi –, la Cina si è aggiudicata negli anni il monopolio nella produzione mondiale. Ma essere leader nel settore si rivela un’arma a doppio taglio: “il suo monopolio non si rivela né economicamente redditizio, né può trasformarsi in peso geo-strategico determinante”, sottolinea Samuel Richer, fondatore di Octobot Consulting, società francese di intelligence economica specializzata nel mondo cinese: “nulla esclude un ritorno importante nel settore dell’anglosfera promossa dai fondi del Pentagono con Stati Uniti e Australia in testa”. 

La Cina negli ultimi 30 anni ha tradotto in realtà quella che era la visione e previsione del 1992 di Deng Xiaoping: il petrolio della Cina sono le terre rare e saranno la chiave della filiera produttiva delle tecnologie del futuro. Attorno al 1997, Pechino comincia a sfruttare ampiamente le immense miniere di Bayan Obo a Nord di Baotou, in Mongolia, che rappresenta circa il 70% delle riserve mondiali di terre rare. Tuttavia, pochi sanno che fino ai decenni precedenti gli Usa erano il primo produttore di terre rare e si stima che potrebbero ancora oggi fornire circa l’85% della domanda mondiale, come prodotto derivato dei processi di estrazione di altri metalli.

 

Ciò che rende queste terre così ‘rare’ non è tanto la loro rarità oggettiva, ma i loro costi di estrazione in termini di esternalità negative nell’ambiente: i rischi sono alti in termini chimici e persino radioattivi, se si pensa al torio, ottenuto dalla raffinazione delle sabbie di monazite, che è un sottoprodotto dell’estrazione delle terre rare. 

I cinesi stanno cercando in tutti i modi di rendere il monopolio nel settore non solo una leva geo-strategica, ma anche un’attività capace di generare profitto sotto il profilo economico. Come osserva un documento del National Energy Technology Laboratory, nel 2018, anno in cui la Cina giunge al suo culmine nella produzione di terre rare, il loro mercato mondiale valeva circa 8 miliardi di dollari, di cui gli Stati Uniti ne importavano appena il 7% pari al loro fabbisogno, equivalenti a 18.500 tonnellate per soli 165 milioni di dollari, contro i 2.6 trilioni di dollari di importazioni americane in macchine, veicoli e altri prodotti finiti. 

A colpo d’occhio si constata quanto in termini puramente economici le terre rare non possano avere lo stesso peso del petrolio, come mostra anche un paragone tra l’impatto del petrolio nell’economia dell’Arabia Saudita (19% del Pil del Paese arabo) e l’impatto delle terre rare in quella di Pechino (0,01% del Pil cinese).

 

Però un punto centrale della questione è proprio questo: tutto il valore delle terre rare sta nei rischi ambientali del loro processo di estrazione e lavorazione. “La Cina ha costruito la sua potenza economica inserendosi strategicamente in quei vuoti lasciati dall’Occidente per i motivi più differenti”, fa notare Richer, “tra cui in primo luogo vi sono le ragioni ambientali, congiunte spesso a processi produttivi a basso tasso tecnologico, tra cui vi è anche l’estrazione delle terre rare e la loro lavorazione”.

Nel 2021 la fetta cinese nel mercato delle terre rare scende dall’80% al 60% e ciò deriva da una ripresa della produzione americana e australiana, ma anche da anni di produzione cinese disarticolata ed economicamente non redditizia. 

 

E l’America cosa fa? Nel giugno scorso, negli States viene siglato un accordo di finanziamento pari a 120 milioni di dollari tra il Dipartimento della Difesa Usa e l’australiana Lynas Rare Earths, per costruire il primo impianto negli Stati Uniti per l’estrazione e l’isolamento di terre rare pesanti, di cui è prevista l’entrata a regime nel 2025. 

La strategia di Washington si corona con il Minerals Security Partnership, con cui lega a sé Australia, Canada, Finlandia, Francia, Germania, Giappone, Corea del Sud, Svezia e la Commissione Europea, per coordinare l’investimento di governi e il settore privato, affinché si riproduca l’intera filiera produttiva non solo delle terre rare ma di tutti i ‘50 minerali critici’ dall’estrazione ai prodotti elaborati sotto standard ambientali, sociali e di governance occidentali. 

Lo sguardo è al domani che vedrà il ruolo di queste materie prime sempre più imponente per le nuove tecnologie necessarie in un’economia a emissioni zero. Questo accordo rappresenta un salto di qualità nel confronto sino-americano, dato che fino all’anno scorso gli Stati Uniti continuavano a esportare i minerali grezzi alla Cina per l’estrazione delle terre rare. E ancora oggi in Europa, l’apertura di una miniera di terre rare sarebbe grottesca non avendo alcun impianto di raffinamento nel continente.

La via europea sembra invece puntare sull’idea della miniera Green, incentrata sul riciclaggio, mentre alcuni leader delle batterie, come Samsung e Panasonic, stanno attualmente sperimentando soluzioni prive di cobalto e che risultano più performanti, senza considerare che già la Tesla ad autonomia standard non utilizza batterie con cobalto. 

In ogni caso, le terre rare resteranno un elemento strategico per l’economia del futuro, e la sfida la vincerà chi saprà guardare oltre l’immediato per puntare sulla costruzione dell’intera filiera dall’estrazione fino ai prodotti elaborati finiti, dagli schermi video alle batterie per telefoni e auto elettriche, dagli elettrodomestici ai caccia F35.

 

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