Spesso, ormai troppo spesso, sorgono incognite allarmanti sulla tenuta del nostro sistema pensionistico, che già oggi non se la passa troppo bene.
Partiamo da una certezza, ma non positiva: se le pensioni vengono pagate con i contributi previdenziali versati da chi lavora, meno persone lavorano e meno soldi ci sono per pagarle. Il costante calo demografico della popolazione italiana, con meno nati e meno giovani, e la contemporanea crescita della vita media dei cittadini, che porta a una popolazione fatta prevalentemente di anziani, sono altri fattori molto importanti che condizionano la situazione e le sue prospettive.
In più, le anomalie preoccupanti non finiscono qui: com’è previsto dalle norme in vigore, “la sostenibilità del nostro sistema pensionistico dev’essere sottoposta ogni tre anni a una verifica statistico-attuariale da parte dell’Inps”, segnala Sergio Rizzo su Milano Finanza. L’istituto ha un ufficio apposito che se ne deve occupare: il Coordinamento statistico attuariale. Ebbene, si dà il caso che l’ultima verifica sia stata effettuata nel 2017, quando alla presidenza dell’Inps c’era ancora Tito Boeri (poi rilevato nel 2019 da Pasquale Tridico) che aveva anche promosso l’invio ai contribuenti delle ‘buste arancioni’ contenenti le stime delle loro future pensioni.
In base alle regole, l’Inps avrebbe dovuto sfornare la successiva verifica statistico-attuariale nel 2020, anno della pandemia, ma a tutt’oggi non se n’è avuta ancora notizia.
Tra un anno appena, quel documento potrebbe essere già vecchio, considerando che sempre secondo le norme nel 2023 dovrebbe essere fatta una nuova verifica e che il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, ha affermato che nel prossimo triennio la spesa previdenziale aumenterà pure di 50 miliardi di euro per via dell’indicizzazione dell’assegno. Dettagli non trascurabili, perché in mancanza di quella analisi sfuggono elementi decisivi per valutare la sostenibilità o meno del nostro sistema pensionistico.
Già oggi, senza avere contezza di quello che hanno provocato le misure introdotte dopo il 2017, i contributi versati da chi lavora non riescono a coprire che l’86% della spesa pensionistica, se non si tiene conto della cosiddetta Gias (Gestione degli interventi assistenziali e di sostegno alle gestioni previdenziali) a carico dell’Erario. Di questo passo, e sempre senza conoscere l’impatto di quota 100, del Reddito di cittadinanza e di tutto il resto, nell’anno del signore 2046 il disavanzo pensionistico potrebbe aver raggiunto quasi 200mila miliardi di euro.
“Nel lungo periodo la spesa pensionistica lorda non è compensata dalle entrate accertate e lo Spread tende ulteriormente ad aumentare in misura sempre più accentuata anche in relazione all’effettiva capacità di riscossione”, rileva Milano Finanza: “nel 2046 la copertura prevista dalle entrate contributive sarà pari all’82% al netto dell’intervento Gias, restando a carico della fiscalità generale il 31% dell’intera spesa pensionistica”.
