Si dice: fare, desiderare, cercare ‘un bel lavoro’. Ma cos’è, e com’è, oggi ‘un bel lavoro’? È interessante, utile, flessibile, appassionante, remunerativo? Se lo chiede – e propone diverse risposte preziose – Alfonso Fuggetta, nel suo libro che s’intitola proprio ‘Un bel lavoro’, pubblicato da Egea, la casa editrice dell’Università Bocconi.
Sono molte le parole chiave, gli ‘ingredienti’ della ricetta giusta: crescita e realizzazione personale, esperienza, missione, competenze, remunerazione. E poi, ancora: curiosità, apprendimento, sperimentazione, leadership, correttezza, innovatività, relazioni.
Un ‘bel lavoro’, oggi, (perché scenario e caratteristiche sono in parte diversi rispetto al passato), dovrebbe essere un mix di tutto ciò. Certo, un mix non facile da creare, trovare, vivere. Nel volume l’autore – che è professore di Informatica presso il Politecnico di Milano, amministratore delegato e direttore scientifico del Cefriel – approfondisce cosa può essere oggi un ‘bel lavoro’ sotto numerosi punti di vista e sfaccettature, dall’inclusione ai ruoli formali e informali, dalla crescita professionale alle contaminazioni.
Per esempio, per ciò che riguarda l’aspetto dell’innovatività: molti lavoratori vedono e toccano con mano problemi e opportunità di miglioramento, hanno idee e proposte per nuovi modi di affrontare problemi vecchi o emergenti, hanno intuito possibilità di creare valore in ambiti non ancora esplorati. Per loro non è più sufficiente continuare a fare ogni giorno le solite attività in modo ripetitivo e acritico: vogliono poter contribuire con le proprie idee e proposte.
Per questo “un ‘bel lavoro’ deve anche dare spazio a creatività e innovazione”, rimarca Fuggetta, “indipendentemente dalla sua natura e finalizzazione, è un’attività dove le persone sono stimolate a innovare, a ricercare modalità inedite attraverso le quali migliorare la qualità del prodotto, del servizio e del loro stesso agire quotidiano”. E mette in evidenza: “è incredibile come troppo spesso questa elementare considerazione sia totalmente ignorata, penalizzando sia l’impresa che i lavoratori”.
Un ambiente di lavoro dove tutti possono contribuire con il proprio patrimonio di conoscenze ed esperienze non solo rende più competitiva l’organizzazione, ma rafforza e qualifica anche il senso del lavoro e la qualità della vita delle persone. Come stimolare i contributi degli individui e la loro voglia di innovare? Al di là di singoli strumenti organizzativi – o anche tecnologici, come forum e piattaforme di Open innovation –, due sono gli aspetti principali da sviluppare: la cultura dell’eccellenza e la cultura dell’ascolto.
La cultura dell’eccellenza significa innanzitutto che non bisogna mai accontentarsi di quanto fatto, è essenziale continuare a ricercare ulteriori opportunità di miglioramento e innovazione. “Serve una cultura d’impresa che sappia consolidare e valorizzare i risultati raggiunti”, fa notare l’autore, “lasciando però sempre la porta aperta e anzi ricercando attivamente forme di valore originali e opportunità di miglioramento inesplorate”.
La cultura dell’ascolto significa, invece, che la partecipazione nasce dal dialogo, dal desiderio costante di ascoltarsi e arricchirsi vicendevolmente. Non è un atteggiamento naturale né semplice da attuare. Ascoltare richiede tempo, attenzione, volontà, umiltà, pazienza. Ma anche ciò contribuisce a rendere ‘bello’ il lavoro.
Per quanto riguarda la leadership, il libro sottolinea: “per tener conto della crescente domanda di operare in Team che sono spesso separati dal punto di vista sia geografico che culturale, i manager devono non solo possedere skill tecniche, ma anche avere la capacità di creare all’interno del team un sentimento di indirizzo condiviso e di commitment”. I manager che riescono a bilanciare con successo queste skill “dimostrano alta competenza e alta empatia”.
