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Rappresentazione visiva dell'articolo: Lo scontro infinito fra Israele e Palestina, tra guerra di religione e reciproco odio atavico

Lo scontro infinito fra Israele e Palestina, tra guerra di religione e reciproco odio atavico

Adriano Loponte

13 aprile 2023

La Palestina per come è stata lasciata dagli inglesi nel 1948 è un piccolo lembo di Medio Oriente dove, in circa 15 milioni, israeliani e palestinesi affollano, spesso sovrapponendosi, un territorio poco più grande della Sicilia.

Ma in tutti questi anni e decenni coloro che hanno cercato di creare una vera vita comune, con uguali diritti, restano una minoranza. Sono più numerosi i realisti: coloro i quali pensano che il reciproco riconoscimento nazionale, il compromesso e una pace, siano l’unica via d’uscita per avere un futuro normale.

Invece la maggioranza relativa di entrambi i popoli non vorrebbe riconoscere nulla all’altro, nemmeno il diritto di esistere in questo territorio così esiguo. A volte, in momenti di crisi, “quando un’interpretazione della fede offusca la ragione, il rifiuto dell’altro diventa maggioranza assoluta”, rileva il giornalista Ugo Tramballi, in un articolo molto schietto pubblicato sul sito dell’Ispi, l’Istituto per gli studi di politica internazionale.

Tramballi rimarca, senza troppi giri di parole: “anche chi conosce questo conflitto, sperando di assistere alla sua fine e al trionfo di una pace, deve riconoscere l’amara verità: israeliani e palestinesi si odiano. Vivono e spesso lavorano gli uni accanto agli altri, condividono inquinamento e scarsità d’acqua. In alcuni momenti dell’anno vivono le loro festività religiose negli stessi giorni. Ma si detestano”.

 

Seguendo da decenni quel conflitto, il giornalista ricorda e sottolinea: “nel 1993, quando fu d’improvviso annunciata l’esistenza di una trattativa, e che a Washington Yitzhak Rabin e Yasser Arafat avrebbero reciprocamente riconosciuto l’esistenza dei due popoli, e avviato un vero processo di pace, Gerusalemme rimase muta. Quando cadde il Muro, i berlinesi impazzirono di gioia. Così a Capetown, quando Nelson Mandela e Frederic de Klerk decisero di costruire un nuovo Sudafrica. Nella parte ebraica e in quella araba di Gerusalemme, invece non accadde nulla. Il fallimento di quel processo di pace e la seconda Intifada del 2000 inflissero alla possibilità di convivenza una ferita profonda, ancora aperta tra arabi ed ebrei. I primi si sono convinti che gli israeliani non concederanno mai uno Stato per loro; i secondi che Israele non ha un partner con cui fare una pace”.

E così quel conflitto infinito continua, da decenni e generazioni, ed è ripreso anche in questi giorni di Pasqua ebraica e cristiana, e di Ramadan musulmano: le violenze alla moschea di al-Aqsa, il lancio di missili a Gaza e alla frontiera del Libano, gli attentati mortali e il rischio di una nuova guerra sia al Sud che al Nord. 

Nonostante dal Libano i palestinesi dei campi profughi avessero lanciato un gran numero di razzi come non accadeva dalla guerra del 2006, Israele non ha reagito con durezza. Ed Hezbollah libanese, senza il cui permesso i palestinesi non avrebbero potuto lanciare i razzi, è rimasto in silenzio. Come a Gaza: dove israeliani e Hamas si sono colpiti al minimo necessario per rispondere alle violenze di Gerusalemme. 

La realtà è che nessuno se la sente d’ingaggiare una guerra. Ognuno per motivi diversi: Israele perché il Paese è pericolosamente diviso sul sistema giuridico; Hezbollah per la disastrosa crisi economica libanese; Hamas perché la gente, costretta a vivere sotto il suo controllo, è spossata. Ma il rischio è anche che una sottovalutazione della crisi o nuovi scontri nella Gerusalemme scintilla di ogni conflitto provochino un’altra guerra vera.

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