Da oltre dieci giorni il Sudan è in fiamme, per un conflitto interno tra esercito regolare e paramilitari che finora ha già provocato almeno 400 morti e quasi 4mila feriti. In queste ultime ore le forze speciali di diversi Paesi occidentali hanno effettuato l’evacuazione di centinaia di cittadini stranieri, tra cui tutti gli italiani che hanno voluto lasciare il Paese africano e la sua capitale Khartoum.
Un dramma che era nell'aria da tempo e quello che tutti scongiuravano è accaduto. Nei giorni scorsi si sarebbe dovuto firmare un accordo per aprire un processo politico che avrebbe dovuto riportare i civili (e la democrazia) al potere in Sudan. La firma è stata continuamente rinviata per disaccordi tra l'esercito regolare, guidato dal generale Abdel Fattah al Burhan, a capo del Consiglio sovrano, e il capo delle Forze di supporto rapido (Rsf), Mohamed Hamdan Dagalo, detto Hemedti. Le Rsf nell’aprile 2019 parteciparono al colpo di Stato militare che pose fine all'era dell'autocrate e presidente Omar al-Bashir.
Col passare del tempo, tuttavia, Hemedti ha costantemente denunciato il colpo di Stato. Anche di recente si è schierato con i civili, quindi contro l'esercito nelle trattative politiche, bloccando le discussioni e quindi ogni soluzione alla crisi in Sudan. Le divergenze tra i due uomini forti del potere sudanese riguardano essenzialmente il futuro dei paramilitari. Il ritorno alla transizione democratica dipende dal loro inserimento nelle truppe regolari. L’esercito non rifiuta questo compromesso, ma vuole comunque imporre le sue condizioni di ammissioni e limitarne l'integrazione. Hemedti, invece, rivendica un'ampia inclusione e, soprattutto, un ruolo centrale all'interno dello Stato maggiore.
Il nodo, dunque, è quello del ruolo delle forze armate e la loro composizione. L'esercito, infatti, in Sudan ha sempre svolto un ruolo fondamentale e detiene buona parte del potere, non solo politico, ma anche economico. Controlla molte attività fondamentali per il Paese.
Sciogliere il nodo delle forze armate è fondamentale per un Paese che ha sempre visto i militari sostenere il dittatore Omar al-Bashir: sganciarle dal potere politico porterebbe il Sudan sul cammino della democrazia, metterebbe fine al regime dei golpisti e, soprattutto, ridarebbe fiato all'economia che sta vivendo una crisi senza precedenti e aprirebbe, nuovamente, la strada a interventi delle istituzioni finanziarie internazionali. La comunità internazionale, infatti, ha chiesto il ritorno alla transizione per riprendere gli aiuti al Sudan, uno dei Paesi più poveri al mondo. Se le parti in causa avessero raggiunto un accordo, la tabella di marcia prevedeva l'entrata in vigore della Costituzione provvisoria e la formazione di un nuovo governo civile, già entro aprile. Poteva essere una svolta storica, ma tutto è stato soffocato dalla bulimia di potere, ancora una volta, dei militari.
Le forze paramilitari Rsf disporrebbero di circa 100mila uomini. Sono un'evoluzione delle famigerate milizie ‘janjaweed’, i ‘diavoli a cavallo’ che combatterono per Bashir al fine di sedare la ribellione in Darfur dei primi anni 2000, un conflitto che provocò almeno 2,5 milioni di profughi e circa 300mila morti.
