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Rappresentazione visiva dell'articolo: La scacchiera di ghiaccio: perché la Groenlandia è l’avamposto dove l’Europa rischia lo scacco matto

La scacchiera di ghiaccio: perché la Groenlandia è l’avamposto dove l’Europa rischia lo scacco matto

Adriano Loponte

29 dicembre 2025

embrava una boutade da reality show, una di quelle sparate immobiliari tipiche del primo Trump: "Compriamo la Groenlandia". Nel 2019 ci avevamo riso sopra quasi tutti, liquidandola come l'ennesima stravaganza di un presidente fuori dagli schemi. Oggi, però, nessuno ride più. Il ritorno del tycoon alla Casa Bianca ha trasformato quella che sembrava una barzelletta geopolitica in un dossier che scotta, e non solo a causa del riscaldamento globale.Quando Trump dichiara, con quella sua franchezza brutale, che l'isola "non serve per i minerali, ma per la sicurezza", sta mandando un messaggio che gela Copenaghen e Bruxelles molto più del vento polare. È la realpolitik che torna prepotente: per Washington, le nazioni non sono solo partner, sono asset strategici o passività. E la Groenlandia, in questa nuova mappa del potere, è l'asset definitivo.Non giriamoci attorno: l'Artico non è più quella distesa bianca, romantica e remota ai confini del mondo. È diventato il nuovo Mediterraneo, un crocevia cruciale. Il ghiaccio che si ritira, ironia della sorte, sta aprendo "autostrade" blu per le navi container che potrebbero dimezzare i tempi di viaggio tra Asia ed Europa, ridisegnando la logistica mondiale. Ma soprattutto, quel ghiaccio nascondeva forzieri di terre rare, uranio e oro che l'Occidente brama disperatamente per non restare ostaggio della Cina nella corsa alla tecnologia e alla transizione green. Trump lo sa: chi controlla la Groenlandia, controlla il rubinetto delle risorse del futuro.La reazione dell'Europa a questo assedio diplomatico? Un misto di irritazione formale e profonda incredulità. Ursula von der Leyen ha alzato gli scudi parlando di diritto internazionale e sovranità, ma la verità, scomoda e spigolosa, arriva dalla Danimarca. C'è un dettaglio tecnico che vale più di mille analisi politiche: per la prima volta, il servizio di intelligence di Copenaghen ha inserito gli Stati Uniti tra i potenziali fattori di rischio nelle sue valutazioni annuali.Pensateci un attimo: stiamo parlando della Danimarca, uno dei membri fondatori della NATO, un alleato di ferro. Eppure, oggi si trova costretta a guardarsi le spalle non solo dai rivali storici a Est, ma anche dall'amico americano a Ovest. È la fine dell'innocenza atlantica. È la presa di coscienza che l'amicizia, a certi livelli, finisce dove iniziano gli interessi nazionali supremi.Chi muove i grandi capitali lo ha già capito da un pezzo. Mentre la politica discute di etica, i mercati annusano l'aria: se l'Artico si militarizza, vuol dire che cantieri navali per rompighiaccio, tecnologie di sorveglianza satellitare e compagnie minerarie diventeranno i nuovi beni rifugio. L'instabilità non piace a nessuno, ma il riarmo e la competizione per le risorse hanno i loro titoli in Borsa, e sono in rialzo.E poi, incastrati in questo Risiko giocato sulle loro teste, ci sono i 56.000 groenlandesi. Sognano l'indipendenza dalla Danimarca, certo, e coltivano un forte orgoglio nazionale. Tuttavia, l'idea di diventare il 51esimo stato americano o un avamposto militare di Washington non li scalda affatto. Un promemoria utile per la Casa Bianca: le democrazie, anche quelle piccole, isolate e ghiacciate, hanno anticorpi sociali che le grandi strategie da tavolino spesso sottovalutano.La lezione per noi europei è chiara e urgente: la questione Groenlandia non è un capriccio imperiale di un singolo uomo. È la sveglia che ci ricorda come il mondo sta cambiando pelle. Meno multilateralismo, meno regole condivise, più gomiti alti per accaparrarsi le posizioni dominanti. Ignorare quello che succede lassù, pensando che sia un problema danese, sarebbe un errore imperdonabile. Perché mai come oggi l'Artico è il nostro cortile di casa, e qualcuno ha appena deciso di piantarci la sua bandiera. 

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